Ombre (non solo cinesi) sul Milan e Donnarumma

Bisogna seguire i soldi. Per capire meglio le ragioni del divorzio tra Gianluigi Donnarumma e il Milan è utile dare un’occhiata ai conti della società di calcio.

Partiamo dall’esercizio chiuso al 31 dicembre 2016. Il bilancio del club rossonero non coincide con la stagione sportiva (cioè dal primo luglio di un anno al 30 giugno del successivo), ma con l’anno solare. Pertanto ogni bilancio è la fotografia di metà di una stagione e di metà di quella successiva.

Questo non ha molto senso. Eppure Lega e Figc lo hanno consentito. Il Milan è stato il primo club ad essere autorizzato, qualche anno dopo che era stata bocciata una analoga richiesta di Sergio Cragnotti per la Ss Lazio, durante la stagione 2003-2004 (il Milan fece un bilancio di sei mesi, da luglio a dicembre 2003, poi dal 2004 ha seguito l’anno solare). Il proprietario del club, Silvio Berlusconi, era presidente del Consiglio e l’amministratore delegato, Adriano Galliani, era anche presidente della Lega calcio. Chissà se sono solo coincidenze.

Dopo il Milan, altre squadre hanno seguito questo esempio. Tra queste Fiorentina, Torino,  Genoa, c’è il Sassuolo di Giorgio Squinzi, ex presidente della Confindustria.

Ma andiamo alle cifre. Il bilancio consolidato del Milan, che comprende tutte le attività del gruppo, nel 2016 si è chiuso con una perdita netta di 74,9 milioni di euro, su un fatturato effettivo (valore della produzione) di 222,9 milioni, escluse le plusvalenze da calciomercato. Queste ultime sono ovviamente comprese nel risultato economico finale, ma non vanno incluse nel fatturato, benché diverse squadre impropriamente lo facciano e così il fatturato dichiarato risulti gonfiato (in tal caso, ci pensa Poteri Deboli a sgonfiarlo). Rispetto al 2015 il fatturato è aumentato di 11,8 milioni (era 212,1 milioni) e la perdita del gruppo è diminuita di 14,2 milioni (il risultato era -89,1 milioni).

Nel 2016 c’è stato un piccolo miglioramento del bilancio del Milan. Ma i conti sono ancora largamente in negativo, insufficienti non solo per un azionista che deve così ogni anno ricapitalizzare la società (a fine 2016 il patrimonio netto consolidato era negativo per 50,4 milioni) per consentirle di far fronte ai pagamenti e di iscriversi al campionato, ma anche insufficienti rispetto ai parametri richiesti dalla Uefa, il fair play finanziario per la partecipazione alle Coppe europee.

Con questi risultati, malgrado il programma di ricapitalizzazione del Milan per 120 milioni che era stato messo all’ordine del giorno dell’assemblea del 18 maggio scorso dai nuovi soci cinesi raccolti intorno a Yonghong Li (almeno così dicono, ma la reale identità non si conosce, è schermata da società lussemburghesi), il Milan non rispetta i parametri per giocare in Europa senza penalizzazioni. Le sanzioni possono andare dalla multa alla limitazione della rosa (come accaduto negli ultimi anni per l’Fc Internazionale, l’As Roma ha avuto solo la multa).

Nella prossima stagione il Milan giocherà i preliminari di Europa League, in caso di qualificazione la Uefa dovrà decidere se applicare una sanzione. In aprile il club aveva presentato un piano industriale alla Uefa, un percorso verso il riequilibrio (futuro) dei conti che faceva leva soprattutto su un forte sviluppo dei ricavi in Cina. Tutto questo nell’ambito di un cosiddetto “voluntary agreement”, un accordo volontario per evitare, o contenere al minimo, le sanzioni.

Il 9 giugno però il piano del Milan è stato ritirato ed è stato annunciato che un nuovo progetto verrà presentato in ottobre. La realtà è che il piano è stato bocciato dalla Uefa. Le previsioni di sviluppo dei ricavi sono state giudicate troppo ottimistiche dall’organizzazione di Nyon, come se fosse un piano dei sogni.

Le cifre del piano sono state pubblicate sul Sole 24 Ore del 13 giugno. Il documento abbraccia un periodo di sei anni. Dalla stagione che termina il 30 giugno prossimo fino al 2021-2022. Secondo le previsioni del piano industriale il Milan dovrebbe avere ricavi pari a 196 milioni nella stagione che si sta concludendo (con la nuova proprietà è già stato deciso di chiudere il bilancio al 30 giugno, come la maggioranza dei club), cioè il 12% in meno dell’intero anno solare 2016 (222,9 milioni).

I ricavi dell’attuale stagione deriverebbero per 98 milioni dai diritti televisivi, per 76 milioni da sponsor e marketing, per 22 milioni dallo stadio. Nel 2017-2018 i rcavi balzerebbero a 273 milioni (+32,3%). L’incremento deriverebbe dai “ricavi dalla Cina”, per 90 milioni, mentre ci sarebbe una riduzione a 61 milioni delle entrate commerciali (sport e marketing).

Negli anni successivi _ secondo i dati pubblicati dal Sole 24 Ore _ ci sarebbe un incremento costante dei ricavi, sempre grazie alla presunta esplosione dei ricavi dalla Cina: 426 milioni nel 2018-2019 (di cui 183 milioni dalla Cina), fino a raggiungere 524 milioni nel 2021-2022 (di cui 225 milioni dalla Cina). Dal quel poco che è trapelato, sono queste cifre che non hanno convinto i controllori della Uefa.

Il piano del Milan assomiglia a un libro dei sogni, più che a un credibile piano industriale. Nei dati pubblicati sul Sole 24 Ore non ci sono i risultati finali di ogni bilancio, quindi non è possibile dire se e quando il club prevedesse un bilancio in equilibrio o con un utile.

Nei dati pubblicati si coglie però un’amara constatazione, che non farà piacere ai sostenitori del club rossonero. C’è una contrazione dei ricavi da sponsor e marketing, detti anche commerciali. Questa voce dovrebbe generare, secondo le previsioni, 76 milioni nella stagione che si sta concludendo, 61 milioni nella prossima, 63 milioni nel 2018-2019, fino ad arrivare a un massimo di 84 milioni nel 2021-2022.

Si potrebbe dire che la previsione è prudente. Quello che colpisce è che queste cifre sono nettamente inferiori ai ricavi commerciali iscritti nelle entrate del Milan negli ultimi bilanci.

Secondo i dati pubblicati da Deloitte nella Football Money League, che fa la classifica del fatturato delle maggiori squadre d’Europa, nel 2014-2015 il Milan aveva 199,1 milioni di ricavi complessivi, di cui 97,1 milioni di ricavi commerciali. Addirittura più della Juventus, il club italiano con i ricavi totali più alti, che aveva 73,5 milioni di ricavi commerciali, su un fatturato totale di 323,9 milioni. Nel 2015-2016, secondo l’analisi fatta da Deloitte, il Milan aveva 214,7 milioni di ricavi totali contro i 341 milioni della Juventus: ma i ricavi commerciali del Milan erano pari a 100,8 milioni, rispetto ai 101,7 milioni della Juventus.

Come si spiega questo squilibrio? Cioè, come mai la Juventus, avendo un fatturato molto più alto, grazie soprattutto ai maggiori diritti tv per i migliori risultati sportivi internazionali, rimaneva dietro al Milan nei ricavi commerciali? Solo nell’ultima stagione c’è stato un sostanziale equilibrio in questa voce, con circa 100 milioni per ciascun club, ma anche questo è difficile da giustificare.

Una risposta potrebbe essere che il Milan è stato più efficiente a fare contratti con sponsor, pubblicità, marketing, sfruttando una storia più ricca della Juventus di precedenti successi internazionali, ma ormai molto distanti nel tempo per essere ancora così redditizi. Questo in parte può essere vero. Tuttavia è difficile pensare che sia solo merito della struttura commerciale del Milan (e demerito della Juventus).

Una spiegazione più realistica, secondo autorevoli fonti del settore, è che i ricavi commerciali del Milan beneficiavano di un elevato minimo garantito grazie agli accordi con Infront, la potentissima multinazionale di media e consulenza per i diritti tv che si sta impadronendo del calcio italiano, grazie soprattutto all’accordo con la Lega, di cui è advisor per la vendita collettiva dei diritti della Serie A.

Infront, acquisita due anni fa dal gruppo cinese Wanda per un miliardo e 50 milioni, è guidata a livello mondiale da Philippe Blatter, nipote dell’ex presidente Fifa Sepp Blatter. A livello italiano fino a novembre scorso era guidata da manager molto vicini a Galliani e al mondo Milan-Mediaset-Fininvest, in particolare Marco Bogarelli e Giuseppe Ciocchetti.

La conclusione di questo discorso è che, se si guarda agli aspetti più realistici dei conti, il Milan ha perso la forza commerciale e di lobby che lo legava a Bogarelli-Infront. Pertanto, in seguito ai mediocri risultati sportivi degli ultimi anni, ha di fronte un periodo di ricavi piatti o in discesa, mentre i maggiori club aumentano le entrate. Altro che boom dei ricavi in Cina!

Quindi i soldi sono pochi. Non ci sono risorse per fare un’offerta a Donnarumma competitiva con quelle che potrebbero arrivare da grandi club europei. Si è sentito parlare di un’offerta di 4,5 milioni netti all’anno di stipendio per cinque anni, sarebbe a dire un costo per il Milan doppio, pari a 45-50 milioni in cinque anni. Non sappiamo se quest’offerta sia stata realmente formalizzata al giovane portiere.

Ma il problema vero è che, con i ricavi limitati che si prospettano per il Milan nei prossimi tre-cinque anni (escludendo l’effetto del “sogno” cinese, che oggi è molto difficile da stimare), il club ha margini di manovra limitati per costruire una squadra davvero competitiva a livello internazionale.

E potrebbe inoltre essere invogliato dalla possibilità di incassare una bella somma vendendo Donnarumma (e risparmiare sul superingaggio), anche se questo i suoi dirigenti non lo ammetteranno mai, per non diventare il bersaglio dei tifosi. Molto più semplice dare la colpa al procuratore, Mino Raiola, ormai indicato come “il cattivo” quando una star cambia squadra.