L’operazione Intesa-banche venete costa almeno 100 euro a testa

Il salvataggio delle banche venete ci è già costato circa 100 euro a testa. Ma, considerando tutte le garanzie e gli impegni assunti dallo Stato, alla fine il costo potrebbe arrivare a 320 euro a testa.

Sono questi i costi per i contribuenti dell’operazione che ha portato Intesa Sanpaolo a comprare, alle sue condizioni, le due banche fallite, Popolare di Vicenza e Veneto banca, secondo calcoli in base ai dati disponibili.

La grande banca milanese guidata da Carlo Messina ha offerto un euro per comprare la parte buona delle due banche (50 centesimi ciascuna!), ma in realtà non si può neppure dire che abbia pagato. Al contrario, Intesa è stata pagata per comprare gli attivi buoni dei due istituti. E siccome i soldi sono arrivati dallo Stato, attraverso il ministero dell’Economia, a pagare siamo tutti noi, almeno quelli che pagano le tasse e non sono evasori fiscali.

Una dote di 5,2 miliardi

Nella loro drammaticità (per le nostre tasche), i calcoli sono semplici. Lo Stato ha versato a Intesa un contributo di 5,2 miliardi,in denaro sonante, “cash” come direbbero gli anglosassoni. Questo importo è composto da tre voci:

(1) 3,5 miliardi per non far abbassare i coefficienti patrimoniali della banca (c’è un livello minimo richiesto dalla Bce)  in seguito all’acquisizione degli attivi delle due venete, altrimenti Intesa avrebbe dovuto chiedere ai soci un aumento di capitale; i soldi li ha dati lo Stato, ma non come aumento di capitale riservato che gli avrebbe attribuito un bel pacchetto di azioni di Intesa e quindi un peso nel governo della società (come invece lo Stato ha deciso di fare per Mps), questa è una dote, sono soldi regalati a Intesa.

(2) 1,3 miliardi sono stati dati per pagare gli esodi del personale che Intesa non vuole tenere. La banca di Messina ha annunciato 3.900 esuberi, ufficialmente “volontari”, a partire dalle venete e poi anche fra i suoi dipendenti. Ma senza incentivi è immaginabile che nessuno se ne andrebbe, e questi incentivi li paga sempre lo Stato, cioè noi. In pratica la somma corrisponde a circa 330mila euro per ogni lavoratore considerato in esubero. Non è detto però che tutti questi soldi arrivino al lavoratore. Se la banca spende di meno per cacciare i dipendenti né avrà un guadagno, come se fosse una plusvalenza. Una plusvalenza da esubero.

(3) 400 milioni per i crediti dubbi delle due banche da assorbire.

E questi, ripetiamo, sono i 5,2 miliardi versati dallo Stato a Intesa, aggiungendovi qualche altro costo come vedremo più avanti corrispondono a circa 100 euro per ogni cittadino italiano, compresi neonati, ottuagenari, nullatenenti.

Garanzie statali per 12 miliardi

L’operazione però non si esaurisce con questo conto, già molto salato. In più, come ha spiegato il ministro Pier Carlo Padoan domenica 25 giugno, dopo la fulminea approvazione del decreto legge “banche venete” in Consiglio dei ministri, lo Stato dà delle garanzie per 12 miliardi alla banca guidata da Messina, per la copertura del rischio di crediti che dovessero risultare non “in bonis”, cioè non recuperabili.

Le garanzie scatteranno solo a determinate condizioni e, secondo quanto affermano il ministero e la Banca d’Italia, in teoria potrebbero non scattare mai. Ma siccome le garanzie sono state date, un motivo ci sarà, e il rischio grava interamente sullo Stato, cioè su noi contribuenti, non sulla banca che si è protetta come se avesse un’assicurazione, pagata però dallo Stato. Ed è calcolando anche il rischio di un esborso di questi ulteriori 12 miliardi che si arriva a un costo del salvataggio di circa 320 euro a testa.

L’a.d. di Intesa, Carlo Messina, non vuol sentir parlare di regalo. In un‘intervista a Repubblica del 27 giugno Messina ha detto: “Nessun regalo, voglio essere chiaro. La nostra banca non ha chiesto di comprare le attività delle venete, ma è arrivata a questa operazione dopo essere stata chiamata dall’advisor del Tesoro a partecipare a un’asta. A quell’asta si sono presentate altre primarie banche internazionali”. C’erano stati anche due gruppi francesi, Bnp-Paribas che controlla la Bnl, Crédit Agricole, e Unicredit, ma tutti si sono tirate indietro. “E da noi è arrivata l’unica offerta completa“, ha puntualizzato Messina.

Diktat. Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo

In questo il banchiere ha ragione. Non gli si può addebitare la colpa di aver fatto una trattativa che tuteli al meglio gli interessi di Intesa, la seconda banca italiana per dimensioni, in genere descritta come la più solida, quotata in Borsa e con un bilancio 2016 in attivo per 3,1 miliardi, quasi interamente distribuiti ai soci come dividendo (per 3 miliardi complessivi).

Messina ha dettato le condizioni

La questione che solleviamo però è un’altra: siccome Intesa è rimasta da sola al tavolo con Padoan e con la Banca d’Italia, per il salvataggio delle venete ha dettato le sue condizioni, che sono condizioni durissime per la controparte pubblica. Condizioni uniche, che non sono state concesse a nessun’altra banca che abbia salvato altri istituti in crisi. Come mai a Intesa questo è stato consentito?

Il precedente più prossimo in Italia è quello di Ubi Banca, l’istituto che ha radici tra Brescia e Bergamo, ben visto negli ambienti della Banca d’Italia. Ubi ha comprato tre delle quattro banche fallite e messe in risoluzione nel novembre 2015: Banca Marche, Etruria e CariChieti.

Anche Ubi per le tre banche ha pagato solo un euro, ormai questo pare il prezzo per queste operazioni, ma non ha ricevuto una dote patrimoniale. Anzi, Ubi ha dovuto fare un aumento di capitale di 400 milioni per ricostituire adeguati coefficienti patrimoniali in conseguenza dell’ampliamento degli attivi. Intesa invece no, come abbiamo visto.

In Spagna qualche settimana fa il Banco Popular è stato salvato dal Banco Santander, che l’ha comprato per un euro. Il compratore però ha dovuto lanciare un aumento di capitale di 7 miliardi per ristabilire adeguati coefficienti patrimoniali.

Un’altra questione importante riguarda le obbligazioni subordinate, cioè i titoli ad alta rischiosità che sono un credito dei sottoscrittori verso la banca.

Abbiamo visto nel caso di Etruria e delle altre banche fallite migliaia di risparmiatori che credevano di avere titoli sicuri scoprire che erano ridotti a carta straccia, come se fossero azioni delle banche fallite. Poi il governo ha cercato di mettere in piedi un meccanismo di rimborso per i risparmiatori truffati, un rimedio parziale, la cui efficacia è ancora da verificare a fondo.

Nel fallimento delle due banche venete hanno perso tutto i circa 200mila azionisti dei due istituti. Sono salvi i correntisti. Anche qui ci sono le obbligazioni subordinate possedute da piccoli risparmiatori, il cosiddetto retail, per un valore di quasi 200 milioni, la cifra che viene citata più spesso sui giornali, in particolare nelle ricostruzioni fatte sul Sole 24 Ore, è di 180 milioni.

Solo 60 milioni per i bond subordinati

Qui Messina ha piazzato un altro colpo.

Non si è preso l’impegno di rimborsare tutte le obbligazioni subordinate. La banca milanese si è detta disponibile a rimborsare solo fino a 60 milioni di subordinate (30 milioni per ciascuna banca), sarebbe a dire il 30% o poco più. Anche queste sono condizioni che in precedenti casi di salvataggio di banche italiane non sono state consentite al compratore.

Il resto delle obbligazioni subordinate delle venete in mano ai piccoli risparmiatori dovrebbe essere rimborsato dal Mef, secondo quanto ha detto Padoan, quindi di nuovo dallo Stato, con un esborso di almeno 120 milioni che si va a sommare ai 5,2 miliardi di dote già assegnata a Intesa, come detto sopra.

Per salvare le venete ed evitare la prospettiva del “bail in”, temuto dal governo e dalla Banca d’Italia per il rischio che si creasse il panico tra i risparmiatori e ci fosse un impatto sull’intero sistema bancario italiano, Messina è stato durissimo nell’imporre le condizioni di Intesa.

Eppure, un esborso di 180 milioni per rimborsare le subordinare, per una banca delle dimensioni di Ca’ de Sass, sono una somma modesta. Ecco quindi un altro aspetto che dimostra come il banchiere romano che spesso elogia Matteo Renzi, quando era premier lo si vedeva spesso a Palazzo Chigi, abbia imposto ogni condizione come in un Diktat.

Poi ci sono le subordinate in mano agli investitori istituzionali, per un valore pari a un miliardo di euro. E queste invece non le rimborserà nessuno, sono soldi persi.

Spiazzato. Il governatore della banca d’Italia, Ignazio Visco

Banche in rialzo in Borsa

Avendo spuntato queste condizioni estremamente favorevoli, non c’è da sorprendersi se il titolo di Intesa è stato immediatamente premiato dalla Borsa. Nella settimana terminata il 30 giugno il titolo ha guadagnato il 6,1%, ha chiuso a 2,776 euro rispetto ai 2,616 di venerdì 23 giugno.

Grazie alla fine dell’incertezza sulla sorte delle due banche venete, quasi tutto il comparto delle banche è andato bene in Borsa. Banco Bpm ha fatto meglio di Intesa, +8,76% (da 2,694 a 2,93 euro).  Mediobanca ha guadagnato il 4,5%, da 8,265 a 8,64 euro. Hanno guadagnato il 3,5% sia Unicredit (da 15,77 a 16,35 euro) sia Ubi (da 3,638 a 3,766 euro). Settimana in flessione invece per Popolare di Sondrio (-2,49%), Banca Generali (-2,36%), Fineco (-1,99%).

 

Aiuto di Stato

Altro versante sul quale tutto è andato liscio, l’autorizzazione della Ue.

Neppure Bruxelles ha sollevato problemi, solo qualche alzata di sopracciglio rientrata in poche ore, su una possibile forma di aiuto di Stato, come ad esempio aveva ipotizzato un articolo del Wall Street Journal del 23 giugno, dal titolo eloquente: “A sweet deal to aid Italy’s Banks”

“E’ difficile dire che Intesa non riceverebbe un aiuto di Stato, almeno indirettamente, e pertanto guadagnerebbe un ingiusto vantaggio competitivo”, ha scritto il Wall Street Journal. “I rivali locali di Intesa è improbabile che si lamentino, perché eviteranno di dover sborsare loro altri soldi. Ma altre banche in Europa, perfino il Santander, possono pensare che questo accordo va troppo lontano”.

Il Santander, come detto, ha dovuto lanciare un aumento di capitale di 7 miliardi in occasione del salvataggio del Banco Popular, ufficialmente pagato solo un euro. Intesa invece i soldi per questo li ha avuti dallo Stato, come dote.

Secondo indiscrezioni il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, avrebbe provato disappunto per come l’operazione si è conclusa. E’ stato spiazzato dal ritiro di Unicredit. Perché quando Intesa è rimasta sola al tavolo del negoziato Visco non è stato in grado di chiedere condizioni migliori, ma ha dovuto subire quelle di Messina.

I tagli

Anche sul versante sociale tappeti srotolati davanti a Messina. Intesa chiuderà 600 delle 900 filiali delle due banche venete, in pratica Messina sceglierà le filiali che vuole prendersi.

Il gruppo ha annunciato 3.900 esuberi, di cui secondo i sindacati 1.100 riguardano le banche venete. Esuberi “volontari, prioritariamente per le banche vente, con l’applicazione del fondo di solidarietà”, ripete la banca di Ca’ de Sass, come riferisce anche oggi il Corriere della sera. “Per chi resta c’è l’ipotesi di spostamento territoriale per la chiusura di 600 filiali entro il 30 giugno del 2019”, aggiunge il Corriere. Insomma, in tutto questo di volontario pare non ci sia molto.

Intesa aveva lavorato da mesi a questa operazione e, quando le si è presentata l’occasione di trattare da sola con Visco e Padoan, aveva tutto pronto. Persino l’approvazione di Bruxelles, a quanto pare.

Bravura di Messina e della sua squadra, dai tecnici della finanza ai lobbisti, questo è indubitabile.

Ma come si fa a dire che Intesa Sanpaolo non è un potere debole?